lunedì 8 ottobre 2018

L'attacchino

Si chiamava Max, mamma veneta e papà piemontese. Pragmatico e silenzioso, a tratti testardo, ma comunque un ragazzo semplice.

A diciott'anni, che manco c'aveva ancora la barba, gli dissero che doveva fare il militare.
Lui obiettò e venne spedito dritto dritto da quell’ometto pingue e azzimato del servizio civile che lo guardò di traverso per qualche secondo, sparì in uno stanzino sul retro, e tornò con un secchio e una specie di spazzolone dicendogli:

- Da oggi tu attacchi.

Lui rispose che non aveva mai attaccato niente in vita sua.

- Mano sinistra, regge. Mano destra, immerge, punta e stende - disse l’omino mentre gli mimava il gesto.

- Mano sinistra regge, mano destra immerge punta e stende - ripetè Max sottovoce.

Fu così che cominciò a fare l’attacchino, in giro, di notte, per le strade del paesello in cui abitava.
E ci prese gusto…

Attaccava cartelloni pubblicitari di qualsiasi dimensione, forma e consistenza, perfezionando a tal punto la sua tecnica da cominciare ben presto a diventare ambizioso. Si mise a riflettere su cos’altro avrebbe potuto attaccare oltre alle pubblicità e ai manifesti elettorali e prese ad attaccar bottone.
Quando si sentì sufficientemente specializzato anche in quello, passò ad attaccar briga. Lasciatemelo dire, fu davvero un periodo difficile per il paesello tranquillo in cui abitava, ma per fortuna, un mattino Max si svegliò e decise che anche in quello era diventato abbastanza esperto, allora si sedette un attimo sui talloni con aria pensosa e cercò di trovare qualcos’altro di attaccabile. Attaccò quadri ai muri, etichette ai barattoli, figurine agli album, polline alle api, tacchi alle scarpe e una volta provò anche ad attaccare in area, ma non avendo un buon destro sbagliava tutti i cross e i calci di rigore, così l’ultima roba concreta che attaccò furono le sue scarpette, al chiodo, e passò a cose più concettuali.

Si mise ad attaccare i carri davanti ai buoi, per esempio, col risultato che tutti i contadini del paesello insorsero perché i buoi smisero di tirare, divennero arroganti e cominciarono a spingere. Un’annata agricola davvero disastrosa quella! Ci vollero mesi per ripristinare le giuste competenze.

Preso da manie di grandezza una notte si svegliò assolutamente deciso ad attaccare la Francia, fece lo zaino e partì. Arrivato alla linea Maginot, però, si perse un tantino d’animo perché, vabbè che era un professionista, ma calcolò che la Francia aveva un bel po' di bombe atomiche a disposizione e lui non ne aveva nemmeno una, sicché non gli restava oggettivamente un gran margine di successo.

Tornò a casa sconsolato perché si sentiva un po’ come uno che aveva già attaccato tutto l’attaccabile e sembrava gli venisse meno lo scopo di una vita intera. Avrebbe voluto tornare dall’ometto del servizio civile a chiedergli - E adesso? - ma venne a sapere che ormai era morto e sepolto.

Così un giorno, quasi senza rendersene conto, attaccò a leggere e libro dopo libro, realizzò che anche le pagine che sfogliava erano attaccate alla copertina e, diamine, pure le parole sulla pagina dovevano esser state attaccate saldamente da qualcuno molto bravo… Chi? E come?

Andò a chiedere alla bibliotecaria che gli fece notare una cosa sconvolgente: anche le parole stesse erano attaccate le une alle altre da un filo quasi trasparente che si chiamava fabula e come se non bastasse ci doveva essere insieme un altro filo, ancora più trasparente del primo, che si chiamava intreccio.

- E dove stanno questi fili?

Lei gli indicò la sua testa.

- Dentro?

- Dentro.

- E come li tiro fuori?

- Con questi…

E si ritrovò davanti un calamaio, un pennino e un foglio.

- Sì, ma io devo capire come, esattamente!

- Ti faccio vedere: mano sinistra regge, il foglio, mano destra immerge il pennino, punta l'inizio della pagina e poi stende l’inchiostro… Capito?

- Al volo…

Da quel momento Max cominciò a scrivere e si disse che avrebbe smesso solo il giorno in cui avesse attaccato tutte le parole esistenti, in tutti i modi possibili, creando tutte le storie inventabili.

C'è morto con la penna in mano, ma era felice...Uh se lo era.

mercoledì 26 settembre 2018

Miele di castagno

È un momento strano, spesso e dolce come miele di castagno: scuro e dal retrogusto amaro.
Ci nuoto dentro a rallentatore, appiccicoso, tiepido e denso a perdita d’occhio.
Insidioso come sabbie mobili, ma così irrimediabilmente soave.
Il cuore nello stomaco, ansimante e disorientata, immersa fino alle spalle…
Cerco un punto di fuga, tremante di indecisione e di energia repressa… Con la voglia di correre e saltare senza riuscirci, destinata alla moviola per chissà quanta altra strada ancora.
Coi vestiti impregnati, appesantiti, i capelli stopposi e il peso spostato in avanti per sfondare quel muro di scivoloso, sordido, ingannevole, dolcissimo miele.
I muscoli doloranti gridano al mio ego di arrendersi, piegare le ginocchia e lasciarsi sprofondare morbidamente in quel viscido tepore, nell’effimera illusione che il calore di quell’istante di abbandono basti a compensare l’inevitabile angoscia di sentirsi avviluppati in una morsa spietata, implacabile, irreversibile.
Gli occhi spalancati nell’ultimo e purtroppo inutile momento di lucidità a cogliere quel raggio di luce sempre più fioca, smpre più distante, finchè lo spasmo dei polmoni non raggiunge l’oscuro limite estremo della sopportazione alla disperata ricerca dell’unica cosa che prima aveva in abbondanza: l’aria.

martedì 25 settembre 2018

Il presente presente e la fatica del prima e del poi...

Mi dici che ci son discipline fatte apposta per insegnare a vivere nel presente, non perdendosi nel passato mentre si sta progettando un ipotetico futuro.
Ti dico che per me non ha senso perché io vivo in una bolla di sapone e in una bolla di sapone c'è spazio solo per il presente.
Mi sforzo tremendamente di ricordare il "fu" per non ripetere gli stessi errori e mi sforzo ancor di più di pensare al "poi" per porre le basi in vista di qualcosa. E questo perché vivo l'adesso e con "adesso" intendo proprio l'ora e il qui.
Per esempio, credi che abbia già pensato a dove voglio arrivare con tutto questo che sto scrivendo?
Macché... Intanto scrivo e da qualche parte arriverò.
E non voglio dire che io non programmi le cose.
Devo farlo e mi ci impegno anche parecchio. Se non lo facessi sarei sempre allo stesso identico punto di sempre. Come se uno camminasse tantissimo e fortissimo, ma su un tapis roulant. Perché il presente è continuamente presente. È il passo mentre lo stai facendo, la palpebra che si chiude mentre la stai chiudendo e si apre mentre la stai aprendo...


Alla faccia di chi dice che non esiste l'attimo presente perché nell'istante in cui lo pensi è già passato.
È sbagliato il soggetto.
Non è l'attimo a essere nel presente, sei tu. Sono io. Siamo nel presente senza scampo di essere altrove. Non puoi evitarlo nemmeno volendo.
Come caspita si fa a vivere più facilmente nel passato o ad avere la testa nel futuro? Per me è inconcepibile.
Sono carne, sangue, ossa, voce e pensieri, tutta intera nel presente.
Del capello caduto devo dire che non me ne può fregare di meno.
E del capello che cadrà non ne parliamo.
Il capello caduto che mi sta solleticando tra la maglietta e la pelle, ecco, quello sì che mi urta.
Se dovessi lasciar scorrere me stessa spontaneamente, senza dighe o deviazioni (cosa che talvolta non riesco ad evitare), mi ritroverei a chiudere la porta di casa dopo una giornata di lavoro dimenticandomi fuori tutto quello che è successo prima o che deve succedere dopo. Nomi, cose, città, persone, tutto, talvolta anche me stessa.
Che quando poi è capitato sul serio è stato un bel casino.
M'aveva detto: "Fammi uno squillino quando arrivi a casa" e io, "certo!!" (perché era l'una di notte, io tornavo a casa da sola su un bus pieno di albanesi ingrugniti e portoricani alticci, ci stava che si preoccupasse insomma).
Bè, io chiudo la porta arrivata a casa e via, quel che è dentro è dentro (cioè io), quel che è fuori è fuori (cioè tutto il resto, buoni propositi compresi). I cellulari fanno parte di quelle cose che fisicamente porto dentro, ma che poi, virtualmente rimangono fuori perché tanto c'hanno la batteria perennemente scarica.
È finita alle due di notte con una persona in pigiama davanti al mio portone che suonava disperatamente il campanello credendo di dover andare alla polizia a denunciare la mia scomparsa.
Forse è una forma di egoismo.
Anzi, sicuramente è egoismo.
Che questa tendenza, per quanto tremendamente liberatoria, non sia nè saggia nè naturale lo capisco da me e infatti cerco di combatterla, ma quello che non capisco è: se io, che sono già così, mi impegno con tutte le mie forze per esserlo il meno possibile, come diamine fai tu a passare la vita a insegnare ad altri a esserlo.
E se poi diventano come me?!?
Te lo immagini un mondo di gente che fa quello che sente nell'attimo in cui lo sente e come lo sente perché ormai ha preso a scorrere in quella direzione?
Che poi, ci son cose che faccio quando le sento e come le sento senza far danni, è vero, tipo buttar giù bigliettini dalla finestra alle due di notte per parlare di cinema con gli ultimi ragazzi della movida, rimasti a bere nel vicolo (io li vedo che alla fine se li conservano come un regalo inaspettato piovuto dal cielo i miei bigliettini, disabituati come sono ai messaggi scritti a mano...), ma ci son cose che invece qualche danno lo fanno perché, per antonomasia, una cosa fatta adesso per l'adesso, non può tener conto degli effetti che causerà sul poi. E allora magari mi vien da pensare che il mio essere qui adesso potrebbe farti soffrire poi, perché nel libro game della mia vita i bivi sono innumerevoli, ma nessuno mi porterà mai in direzione della porta che hai socchiuso tu quando mi hai intravista dallo spioncino.
Se il libro game fosse tra le tue mani e lo stessi leggendo, sapendo che alla fine io comunque scomparirò senza lasciare tra le tue dita nulla, al di fuori di semplici parole, cosa faresti? Continueresti a leggere o....

lunedì 24 settembre 2018

Voglia di scrivere...

...A prescindere da quello che si scriverà.
Ti è mai capitato?
Secondo me sì.
A scrivere non è mai il cervello.
Il cervello filtra, per carità. Il cervello rilegge, talvolta cancella. Ma non è mai il punto di partenza. Il punto di partenza sono le viscere.
Si comincia con quella spinta, giù, là, alla base degli intestini e senti quel qualcosa che sale inesorabile come schiuma di birra sulle pareti solleticandoti dall'interno e poi su, fino in gola, e dalla gola si spande in tutte le direzioni, toccando anche i muscoli delle braccia che incominciano a fremere di energia repressa. Un pizzicore ai polpastrelli ti segnala la saturazione e le cose son due: o ingoi, ingoi e ingoi ricacciando tutto sul fondo, o cominci a scrivere e lasci che questo fiume di birra si trasformi in parole di cui non hai nessun controllo.

Ora, in tutto questo processo, ti devo confessare che mi succede una cosa strana che magari succede anche a te: i concetti mi vengono fuori al contrario. Se le cose hanno un ordine (e ce l'hanno), dal mio corpo escono puntualmente nell'ordine inverso. Sta poi al cervello ribaltarle in un secondo momento. Infatti non ti credere che questo post non sia passato per lo stesso processo: la prima cosa a venir fuori sono stati i polpastrelli che pizzicano e poi a ritroso, fino a rendermi conto che, com'è ovvio che sia, il punto di partenza stava esattamente alla fine di ciò che avevo scritto. Così ho preso tutto e l'ho ribaltato.
E la cosa veramente buffa è che, riflettendoci, non solo le cose ci escono al contrario, ma ci entrano anche al contrario. Prendi le parole che stai leggendo in questo momento: ti arrivano passando attraverso le tue pupille e impressionandosi sulla retina, ma indovina un po'? Sono capovolte.
Saranno poi gli impulsi inviati attraverso il nervo ottico a fornire all'encefalo le informazioni necessarie all'elaborazione dell'immagine, nonché al suo raddrizzamento.

Detto ciò, secondo me il nervo ottico del mondo s'è rotto. Guardo quello che accade ed è tutto al contrario: i cattivi prosperano, i buoni annaspano, la disonestà è premiata, l'onestà è un fastidioso contrattempo, i sì sono no e i no sono sì...
Quando sarà riparato il nervo ottico, ci sarà un grande encefalo che raddrizzerà tutto, io credo.

domenica 23 settembre 2018

La nostra natura e il dover essere da qualche parte per non essere altrove

È indubbio che ognuno ha la propria natura, ma è anche vero che si può scegliere di cambiarla. È faticoso, ma possibile. Basta remare controcorrente, costantemente, senza tregua e possibilmente non completamente da soli, ma talvolta si è costretti a farlo anche da soli se non si vuole perdere del tutto la rotta.
L'importante è non smettere di remare, perché quando lo si fa la corrente prende e porta via... Dio solo sa quanto è più facile lasciarsi portare dalla corrente piuttosto che remare, ma la direzione non è quella giusta, o meglio, non è quella che ho scelto io.

Ricominciare a remare dopo un periodo in cui ci si è lasciati trascinare dalla corrente è straziante e non si piò contrastare la corrente per dritto, non ci si riesce neanche volendo. Occorre bordeggiare, nel tentativo di riacquistare un po' di slancio, un po' di velocità, sperando di sentire cuore e muscoli che riprendono a pulsare dalla voglia di funzionare di nuovo.
Tu mi hai trovata in un momento di bordeggio, anzi, oserei dire quasi di stasi.
Uno dei miei libri preferiti, parlando del cuore, dice che è ingannevole e difficile da correggere. La veridicità di certe parole la si può intuire, ma la si capisce appieno solo quando si consapevolizza di esserci cascati con tutte le scarpe.
Alcuni di noi passano parte della vita a convincersi di star bene da soli (io per lo meno l'ho fatto) e in parte è anche vero: si rema meglio, senza intralci, si segue la rotta che ci sembra migliore... Insomma, funziona. Poi ci si trova di fronte qualcuno che sembra proprio essere della forma giusta per incastrarsi nel puzzle che abbiamo costruito giorno dopo giorno e ci si dimentica della rotta, ci si dimentica di remare, ci si concentra su orizzonti che non sono quello che ci siamo scelti.
Io ho passato gli ultimi due anni a cercare di far andare d'accordo testa e cuore, ma si è rivelata una lotta impossibile. Da una parte il cuore remava a destra e dall'altra la testa gli remava contro. È come se per due anni non avessi fatto altro che girare su me stessa...
Poco tempo fa ho deciso che era ora di smetterla, ma per riprendere la mia rotta e concentrarmi solo sul mio orizzonte ho dovuto tagliare la fune che mi teneva legata a questa barca che si incastrava perfettamente con la mia, ma non aveva alcuna intenzione di remare con me, nella mia direzione, alla stessa velocità. Già remare per sè stessi è difficile, per due la fatica è sovrumana, se poi capita che nell'altra barca qualche volta si remi anche al contrario allora diventa completamente impossibile.
Liberarsi di quello che era solo un peso o un intralcio dovrebbe sembrare la soluzione definitiva al problema, ma siccome il cuore è ingannevole, si innesca un meccanismo perverso che ti fa improvvisamente dimenticare i motivi che ti hanno portato a tagliare la fune e ti fanno solo sentire il peso dell'assenza, della solitudine che torna.
La difficoltà, non è tanto ricominciare a remare nella giusta direzione, ma desiderare di volerlo fare, perché l'unica cosa che i tuoi muscoli sembrano desiderare ora è tornare indietro a recuperare ciò che abbiamo lasciato andare alla deriva.
Fortunatamente ho una testa che sa esattamente cosa è giusto e cosa è sbagliato per me e per la mia vita e così, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, mi sono gettata in mezzo a quella bolgia di voci, persone, chiacchiere e boiate, nel tentativo di trovare qualcosa che mi distraesse e mi facesse dimenticare la voglia di cercarlo di nuovo, vanificando i miei propositi.
In quella bolgia ho trovato te e ho capito cosa mi serviva: tornare a scrivere.
Però io non so scrivere senza meta, ho bisogno di tendere verso qualcosa: ho bisogno di scrivere per qualcuno che sappia leggere.
Tu sai leggere.
E so che hai capito cosa intendo. È come se tu dipingessi un quadro e lo vedessero mille persone, ma tra quelle mille ne scorgi una che osserva le pennellate, le comprende, valuta l'accostamento dei colori e nota anche le sbavature. A quel punto ti accorgi che è valsa la pena dipingere quel quadro per farlo passare da quegli occhi.
Quindi eccomi a chiedertelo: ti va di diventare il mio unico lettore?



venerdì 21 luglio 2017

In con gru enze

Per la maggior parte del tempo non penso sia tu.
Il resto del tempo lo passo a chiedermi, ma se non sei tu, chi altro mai potrebbe?
Nessuno.
Quindi la scelta è tra te e il nulla.
Sembrerebbe una scelta facile, ma non lo è per niente.
Il guaio principale è che accanto a te mi sento patetica e senza di te anche.
Quando sono con te non vedo l'ora di rimanere da sola e poi, quando sono da sola, non faccio che pensare a quando potrò di nuovo stare con te.
Mi sembra che tu abbia la forma di una enorme cospirazione che punta tutti i suoi istinti cospiratori nella mia direzione al solo scopo di annichilirmi.
Mi mette a disagio la tua presenza, ma sembra io non riesca più a sentirmi a mio agio in tua assenza.
È un labirinto che si arrotola su sè stesso per implodere nel più assurdo vicolo cieco in cui io mi sia mai trovata.
Vorrei una matita con la punta acuminata per restituirti sulla pelle tutti i puntini di sospensione che mi hai sgocciolato addosso da quando ci siamo conosciuti e già che ci sono, tantovale che mi si dia anche un fazzoletto di carta per soffiarmi via dal naso il tuo profumo, talmente tuo che se lo sento addosso a qualcun altro, quello diventa te.
Sono furiosa per la tua assenza e mi infurierò ancor di più quando tornerai perché l'unica cosa chiara, in tutta questa storia, è che non ti vorrei diverso da come sei, ma non ti posso aprire la porta finché non cambi...


martedì 4 luglio 2017

Di mutandine scucite e amicizie dimenticate...


Chissà se fa dimagrire anche tirar fuori quei ricordi che sono rimasti lì, sedimentati per anni e anni senza che mai una volta ci sia stato il bisogno di andarli a riesumare...
Io ci provo.
Tutto mi è tornato alla mente l'altro giorno, quando per caso ho visto passare una ragazza che non incontravo da una ventina d'anni (facciamo anche una venticinquina d'anni)...
Avete presente quelle persone che entrano un po' per caso nella tua vita, passano silenziosamente e se ne vanno, così come sono venute, senza lasciare la benché minima traccia?
O almeno ce lo crediamo.
Perché il nostro cervello è più infallibile delle telecamere di sorveglianza del benzinaio all'angolo e archivia meticolosamente ogni più piccolo istante che ci è passato addosso, o anche solo accanto...
Poi, però, c'è l'archivista: quello che, in stile Inside Out, dovrebbe essere capace di catalogare i ricordi come si deve.
Il mio col cavolo...
Si chiama Vattel di nome, Appesca di cognome, stipa ricordi in bell'ordine da decenni, ma poi si dimentica puntualmente dove diamine li ha ficcati e quando gli chiedo di tirarmi fuori una cosa in particolare, figurati se ci riesce... Si perde nei meandri sinaptici a frugare cassetti neuronali per giorni, fino a che la cosa che gli ho chiesto o non mi serve più, o nella migliore delle ipotesi, trova qualcosa di simile per assonanza o per colore e me la propina con candida innocenza e spropositato ritardo.
Ma l'altro giorno no.
L'altro giorno Vattel si è dimostrato di un'efficienza sospetta (secondo me tutta fortuna, del tipo che si trovava per caso di fianco al cassetto giusto e s'è detto "mò fingo di essere organizzato e faccio il figo").
Vedo questa tizia e mi si apre istantaneamente nella testa il suo fascicolo con tanto di documentazione audio/video: Deborah a dieci anni, matassa di capelli crespi biondino rossicci, pelle color biancolatte lentigginosa, voce roca e occhi gialli. Abbiamo gironzolato insieme un'estate di tanti anni fa e ci siamo dette poco o niente perché lei aveva uno strano tic che, mentre parlava, le faceva strizzare convulsamente un occhio e le stortava la bocca in una smorfia scomposta verso destra. Poi c'è stata quell'unica volta in cui mi ha chiesto (come fanno le femminucce vere) se l'accompagnavo in bagno che doveva fare pipì.
Io, che femminuccia vera non lo sono mai stata, mi son stranita un tantino, però poi mi era sembrato brutto dire di no e così l'avevo accompagnata.
Una volta entrati nello squallido bagnetto claustrofobico del caffé della piazzetta, lei si era trata giù i pantaloni e il mio occhio era cascato involontariamente sulle sue mutandine bianche a pois rosa che però, a dispetto della vezzosità della stoffa, esibivano due o tre vistosissimi buchi che lei (notando che avevo notato) giustificò dicendo, "Tanto le mutandine stanno sotto".
Non so descrivere esattamente quello che pensai in quell'istante. Fu un misto tra il disagio del "maddai, mica me le farebbe mettere mia madre delle mutandine conciate così" e lo stupore di un "cavolo, però è vero, son sotto e non si vedono, quindi chissenefrega".
Poi, uscimmo da quel bagno e mi dimenticai di tutto.
Mi dimenticai del disagio, dello stupore, delle mutandine bucate e, poco dopo, mi dimenticai ufficialmente anche di Deborah. E suppongo che lei si dimenticò ufficialmente di me perché, quando l'ho incrociata per strada l'altro giorno, non ha nemmeno alzato lo sguardo e ha tirato dritta senza batter ciglio.
A pensarci bene, esattamente come ho fatto io...

domenica 2 luglio 2017

L'unica mia costante è l'INcostanza...


E forse mi applico con notevole successo anche nell'incongruenza dei pensieri, nell'intorpidimento dei sensi e nell'indecifrabilità delle re(l)azioni.
Tutte robe IN, per capirci.
Prendiamo oggi, per esempio... Nell'ordine mi è stato detto che sono folle, che sono stupenda, che era meglio se parcheggiavo un po' più a sinistra, che sono INgrassata e che sono INadeguata.
Su tutto ha prevalso il pensiero che, quando mi guardo attraverso gli occhi degli altri, mi faccio un po' di tristezza.
E poi prevale anche il suo silenzio.
Ah no, mi ha appena mandato un messaggio vocale. Che faccio l'ascolto subito?
Naaaa...
Aspetto... ... ...
Perché con lui ostento indifferenza (altrimenti mica mi starebbe dietro se sapesse che i suoi messaggi hanno una suoneria diversa da quella di tutti gli altri e che acchiappo il telefono al volo ogni volta che mi scrive).
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Ascolto... ... ...

Chissà che mi pensavo.
Una boiata.
Riesce a deludermi ogni santa volta che ho uno straccio di aspettativa e poi, quando ormai non mi aspetto più nulla, fa cose che nessun essere umano ha mai fatto per me.
Ho un solo commento da fare al riguardo: "mma bboh... ... ...".

Ps: la foto lì sopra è di ieri notte, scattata un attimo dopo aver deciso di pucciare i piedi in mare e un attimo prima di essere stata travolta da un'onda decisamente anomala che mi ha fatto concludere la serata totalmente INzuppata.





mercoledì 28 giugno 2017

Lo faccio per dimagrire

Perché ho scoperto che le cose represse ci ingrassano e a me è venuta un po' di pancetta. Ergo: reprimo.
Soluzione?
Riapro un blog, così ci vomito dentro tutto quello che nel quotidiano non sta bene dire e via pancetta per sempre.
Sia chiaro, non voglio accaparrare lettori.
Sei un lettore? Pussa via...
Nulla di ciò che troverai scritto qua dentro sarà della benché minima utilità per te.
Ci troverai una sequela di emozioni scomode, sentimenti spanati, storie sghembe e forse bicchieri e bicchieri di latte raccolto dalle ginocchia di chi si è ostinato a leggere nonostante le mie raccomandazioni di girare il più possibile al largo.
Sei uno o una con un po' di pancetta anche tu e vuoi vedere se il mio metodo funziona e il mio adipe in eccesso si scioglie, post dopo post?
E allora comincia col sorbirti l'eclatante rivelazione del primo sentimento scomodo che non c'è verso di poter esternare al di fuori della blogosfera.
La confusione.
Sono confusa e non particolarmente felice (scusa Carmen, ma mica a tutti riesce il connubio). Per colpa mia innanzitutto, per colpa di Beppe in buona percentuale e, dulcis in fundo, per colpa del buco nero che risucchia tutte le emozioni, i sentimenti e le sensazioni che si sporgono oltre il bordo epidermico della mia persona.
Chi è Beppe?
Uno bello, ma talmente bello che non si può nemmeno più tirare in ballo il gusto personale. Per una serie rocambolesca di coincidenze durate una ventina d'anni, me lo sono ritrovato davanti la scorsa primavera e da allora non s'è più mosso.
Mi impedisce la visuale, mi urta, mi fa i dispetti, mi innervosisce e talvolta mi intenerisce, (ma più spesso mi innervosisce). Il perché continui a gravitare intorno a me, quando viene matematicamente calamitato da pianeti ben più giovani e tonici del mio è un mistero cosmico che mai mi spiegherò.
O forse un giorno proverò a spiegarmelo onestamente perché tanto, qui dentro, non ci metteranno mai piede né lui, né nessuna delle sei persone che teoricamente possono ricondurre queste parole a lui (secondo la teoria dei sei gradi di separazione).
E allora rieccomi blogosfera, sono tornata ad abitarti, seppur sotto mentite spoglie e l'ho fatto per poter smettere di mentire. Suona contorto, ma è così: per non mentire a noi stessi, spesso bisogna fingersi qualcun altro e spiarsi con noncuranza nello specchio delle proprie parole rotolate a valle come sassi e fango franati da una collina senza più alberi.
Abbracciami e perdonami se l'ultima volta sono scappata senza salutare.